– Concetti –
Cosa significa Coding?

«Imparare a programmare non serve solo a creare futuri programmatori, di cui pure c’è bisogno» spiega Alessandro Bogliolo, docente all’università di Urbino e «ambasciatore» per l’Italia della «CodeWeek», andata in scena lo scorso ottobre. «Il salto di qualità — continua Bogliolo — si fa quando si inizia a pensare che il coding debba diventare materia di studio».

E lo sta diventando un po’ in tutto il mondo. Barack Obama pochi mesi aveva esortato gli studenti americani: «Non comprate un nuovo videogioco, fatene uno. Non scaricate l’ultima app, disegnatela». In Italia, tra le linee guida del progetto del governo sulla «Buona Scuola» è citata anche l’«educazione al pensiero computazionale e al coding nella scuola italiana». Segnali che questi temi hanno raggiunto le istituzioni, sotto la spinta di un movimento dal basso. Sono moltissimi ormai i corsi, i work-shop e gli appuntamenti nel nostro Paese.
Il concetto chiave è il «pensiero computazionale», che ricorre anche nel documento del governo. «Significa pensare in maniera algoritmica ovvero trovare una soluzione e svilupparla — dice Bogliolo —. Il coding dà ai bambini una forma mentis che permetterà loro di affrontare problemi complessi quando saranno più grandi». Insomma imparare a programmare apre la mente.  Per questo si può cominciare già in tenera età. Anche per uscire da un equivoco: quello che i nostri bambini, i cosiddetti «nativi digitali», siano bravissimi con le nuove tecnologie. «È un luogo comune» dice Massimo Avvisati, responsabile didattico dell’area Kids di Codemotion. Poi spiega: «Per gli adulti il tablet o lo smartphone sono una finestra di libertà. Molli il piccolo davanti a quello strumento per una mezzora, ti godi un po’ di pace, poi lo vedi disinvolto con la tecnologia e pensi che tutto finisca lì. Ma è una fruizione passiva». Quando i bambini si avvicinano al coding, invece, diventano soggetti attivi della tecnologia. I risultati sono immediati. In poco più di un’ora si può creare un piccolo videogioco, funzionante: «Li rendiamo produttori di tecnologia. E i ragazzi via via maturano anche una presa di coscienza. Quando lavorano per il loro videogame vogliono che sia difficile. “Altrimenti chi lo usa si annoia”, dicono. Iniziano a vedere le cose da una prospettiva diversa» aggiunge Avvisati.

Per fare tutto ciò servono strumenti adatti. Il più diffuso è Scratch: un «tool» di programmazione visuale (il codice del programma non deve essere digitato) ideato al Mit di Boston. Ne esiste persino una versione «junior» per chi ancora non sa leggere (dai 5 anni).
Crescendo le cose si fanno più complesse e il software si può interfacciare con il mondo fisico di altre «discipline» di frontiera: stampa 3D, hardware programmabile (tipo Arduino e Rasberry Pi), Lego Mindstorms e altro.